Era inevitabile, scontato, scritto nel codice genetico.
Dai calembour che storpiano i nomi alla battuta sessista su Rosi Bindi
il passo è stato breve. Un piccolo passo per l’uomo. Ma un grande passo
per il Movimento a Cinque Stelle.
E’ il passo che denuda i re e ne fa vedere l’altra faccia, in questo caso ben dissimulata nel fumus delle gag finto-comiche.
Perché il giochino di Beppe Grillo è tanto scoperto quanto intellettualmente truffaldino. Si permette di tutto in forza del suo non essere capo
politico, ma esattamente come un capo politico espelle i dissidenti dal
movimento. Si “copre” giocando a fare la Litizzetto, ma con lo scopo di
mandare gente in Parlamento. Si trincera dietro la satira, ma per
scavalcare le regole della convivenza e della politica.
A suo modo, in questi anni, ha fatto un piccolo capolavoro. Ha
disegnato per sé una zona grigia – culturale e linguistica –
perfettamente a metà strada tra cabaret e politica. E da quella trincea
inattaccabile, perché sfuggente e ineffabile, spara bordate sulle
persone e sul palazzo.
In sostanza, un cinico e oliatissimo ingranaggio di
deresponsabilizzazione.
Da far muovere all’unisono con un costante
esercizio di vittimismo.
Così il capo dei grillini (e chi si arrabbia per la definizione la
dovrà pur smettere, perché è Grillo che ha l’ultima parola su chiunque
sia eletto per i Cinque Stelle) copre tutte le incongruenze, fa a
fette le singole complessità, semplifica ogni passaggio a suo esclusivo
beneficio.
E poco importa se per difendere le nozze gay si sfodera un linguaggio
sessista, che è evidente contraddizione in termini. La sola cosa che
conta è che il pubblico acquisti il biglietto, o che l’elettore voti. E
nel caso di Beppe Grillo da Genova, tra le due cose c’è ben poca
differenza.
(P.S. Un appello ai lettori che dicono di non vedere dove sia il sessismo: per favore, non prendiamoci in giro).
Fonte: Marco Bracconi